Elena Porcelli, giornalista free lance, ha una passione per i profumi che ricorda –ovviamente in positivo, per l’intensità non per la patologia- l’ossessione di Jean-Baptiste Grenouille il protagonista del famoso romanzo di Patrick Suskind.
Il suo blog, simpaticamente intitolato Eau de Purcel, è una delle pagine più accurate e intriganti sulla storia, l’uso, l’abuso, la vivacità dei profumi.
A lei abbiamo chiesto di aiutarci ad entrare in questo mondo.
Per
tradizione i profumi parlano francese, italiano, inglese è ancora così? I
profumi del 2014 nascono ancora in confini ristretti?
I grandi marchi internazionali sono quasi tutti europei
o statunitensi, ma stanno emergendo nuovi produttori di altri paesi. Per
esempio la linea Fueguia 1883, che viene dall'Argentina, Amouage, di proprietà
del sultano dell'Oman, Arabian Oud, un marchio mediorientale non ancora
arrivato in Italia, che però ha aperto negozi sugli Champs-Élysées a Parigi e
in Oxford Street a Londra.
Quali
sono le caratteristiche che distinguono un profumo francese, da un italiano e
da un inglese?
Di fatto, è impossibile riconoscere la “nazionalità”
di un profumo, il linguaggio degli odori è il più internazionale che esista. In
realtà il profumo è globalizzato per natura, perché le materie prime vengono da
tutto il mondo, almeno da quando Alessandro Magno ha introdotto nella
profumeria mediterranea le spezie portate dall'India. Il soffitto dell'Officina
Profumo-Farmaceutica di Santa Maria Novella, a Firenze, fondata nel 1612 è
affrescato con le allegorie dei Quattro Continenti, perché già allora usavano
essenze di tutto il mondo, dall'iris coltivato in loco alla vaniglia proveniente
dal Messico. La profumeria “francese” è stata fondata da un italiano, René Le
Florentin, profumiere (e avvelenatore) al seguito di Caterina De' Medici,
mentre l'acqua di Colonia è stata creata dall'italiano, emigrato in Germania,
Giovanni Paolo Feminis, nel Settecento. Oggi, poi, i profumi dei grandi marchi
internazionali, come Givenchy o Dolce e Gabbana, sono distribuiti in tutto il
mondo, per cui debbbono adattarsi a gusti diversissimi e spesso una fragranza,
con un'immagine francesissima o italianissima, è prodotta da un'azienda
svizzera come Firmenich o americana come IFF.
Gli
appassionati di profumi affermano che le fragranze devono essere definite vere
e proprie opere d’arte. Perché dovremmo? Cosa da loro la caratteristica di
opera artistica?
Perché non dovremmo? Perché la creatività che si esprime attraverso gli odori dovrebbe
essere, a priori, meno interessante e significativa di quella che si esprime
con i suoni, i colori, le forme o le parole? Detto questo, non tutti i profumi
sono opere d'arte. Alcuni nascono semplicemente come prodotti commerciali e
sono “arte” quanto una canzonetta da discoteca . Altri, però sono frutto di una
vera ricerca estetica. Tutto dipende dal rapporto tra l'artista, cioè il
profumiere e il committente, cioè l'ideatore della linea. Ci sono committenti
illuminati, per esempio Majda Bekkali, che ha chiesto a Cecile Zarokian di
creare un profumo per comunicare l'idea di “rosso” a una persona non vedente.
Ne è uscito il capolavoro Mon Nom Est Rouge. E ci sono profumieri come Meo
Fusciuni, Orazio Pregoni di O' Driu, Andy Tauer, Giovanni Sammarco e altri che,
per non assoggettarsi a un committente, producono in proprio. Hilde Soliani,
addirittura, non va d'accordo neppure con la maggioranza dei proprietari delle
profumerie, in pratica l'equivalente dei galleristi d'arte, per cui le sue
creazioni sono difficilissime da trovare. Ma ne vale la pena.
Si
dice che ogni profumo racconti una storia. Sei d’accordo?
Quasi tutti i profumi nascono da un “brief” cioè
un'idea che il committente dà al profumiere. Non sempre è una storia, a volte è
puro marketing, per esempio un profumo per i fan di una celebrità. Silvio Levi,
ideatore delle fragranze Calè, le definisce “poesie”. Più che “storie”, sono
impressioni, momenti, per esempio un temporale nel deserto del Nevada, da cui
sono nati due fragranze diversissime, Fulgor di Mark Buxton e Roboris di
Maurizio Cerizza. Memo Paris è una linea tutta di luoghi,come Lalibela, un
santuario copto in Etiopia, Irish Leather un cavallo nella brughiera irlandese.
Mona Di Orio, una grande profumiera scomparsa prematuramente, ha cercato la
perfezione di ciascuna essenza, ispirandosi al concetto, mutuato dalle arti
visive, di sezione aurea.
Tra
gli appassionati di profumo c’è spesso la contrapposizione tra profumo di
nicchia e commerciale; questa differenza è ancora necessaria? E cosa
differenzia i due prodotti ? C’è un meglio a priori?
La differenza tra “nicchia” e “commerciale”, di per
sé, è solo nella distribuzione. I “commerciali” sono il più possibile diffusi e
reclamizzati sui mezzi di comunicazione di massa, la “nicchia” è distribuita in
un numero limitato di punti vendita. Di norma, la nicchia investe meno in
pubblicità e di più nel prodotto. Ma questo non è garanzia di qualità. Ci sono linee
destinate, per esempio, ai nuovi ricchi dei paesi emergenti, che si distinguono
solo per i prezzi assurdi. E ci sono profumieri che, pur lavorando anche per
marchi commerciali creano opere notevoli, per esempio Francis Kurkdjian, autore
di Le Male per Jean Paul Gaultier, che ha rivoluzionato i profumi per uomo e di
For Her di Narciso Rodriguez, uno dei più bei femminili in circolazione.
Da
cosa si riconosce un buon profumo? Buono è semplicemente ciò che
dà piacere. Se un profumo piace, possibilmente non solo a chi lo indossa, ma
anche a chi gli sta intorno, è buono. “Bello” è una faccenda un po' più
complicata, come dimostrano i fiumi d'inchiostro versati sull'estetica dai più
grandi filosofi. Un profumo “bello” deve comunicare qualcosa, non necessariamente
una storia, ma almeno un'emozione, deve avere un'armonia compositiva, insomma,
deve valere la pena di annusarlo un'altra volta.
Non
tutto va bene a tutti: come scegliere la propria fragranza?
Il profumo è un'opera d'arte che va indossata e
vissuta. Cambia moltissimo sulla pelle. Bisogna tenerlo addosso per almeno sei
ore, possibilmente più a lungo e vedere come evolve, come ci fa sentire e cosa
comunica alle persone che incontriamo. Indossare un profumo che non “sentiamo”
e che non ci fa sentire “noi stessi”, solo perché è di moda o vogliamo
comunicare un'immagine di noi che non corrisponde alla realtà, mette a disagio
noi e chi abbiamo accanto, anche solo a livello inconscio.
Esiste
una netta distinzione tra profumo da donna e quello da uomo?
Il concetto di “pour homme”, e di conseguenza di “pour
femme” è stato creato dai profumieri francesi della fine dell'Ottocento, quando
si è capito che il profumo non aveva particolari proprietà salutari, come si
era creduto fino alla scoperta dei batteri, e quindi, è stato considerato un
semplice cosmetico. A quel punto, temevano che gli uomini smettessero di
usarlo, per paura di venir considerati effemminati e si sono inventati “il
maschile”. In Oriente, dove il problema non si è mai posto, gli uomini usano tranquillamente
essenze “femminili”. Se dicessimo a un indiano che il suo gelsomino sambac è
“da donna” o a un emiro arabo che la sua rosa di Taif è femminile, ci
guarderebbe parecchio strano. Come minimo. Io uso spesso Vetiver di Guerlain e
nessuno si è mai accorto che sarebbe “da uomo”. E molti uomini usano Feminitè
du Bois di Serge Lutens, perché amano il legno di cedro, anche se il nome li
mette un po' in imbarazzo.
Alcuni
adottano una fragranza e le rimangono fedeli tutta la vita, altri sono più volubili
e cambiano spesso cosa è meglio? Non c'è un “meglio”.
L'importante è sentirsi bene con quello che si indossa in quel momento. Chi
cambia spesso deve stare attento a mettere il profumo solo sulla pelle, per non
contaminare i vestiti, creando strani miscugli. Ci usa sempre lo stesso, è bene
che si faccia annusare dagli amici: il naso si abitua agli odori e si rischia
di metterne troppo, perché non lo si sente più. Una celebre cantante italiana
usa Fracas da trent'anni e, a un evento, ho avvertito la sua presenza dal piano
di sotto.
Esistono
parti del corpo in cui è meglio mettere il profumo, per valorizzarlo?
Ci sono diverse scuole di pensiero. Io lo metto
soprattutto sul collo e sulla sciarpa, per sentirlo meglio e proteggermi dalle
puzze della città e lascio liberi i polsi, in caso debba provarne altri. Il mio
amico Chandler Burr di metterlo sul collo, se si ha un appuntamento galante,
perché il profumo ha un sapore tremendo e raccomanda ddi spruzzarlo invece
sulla camicia, prima di indossarla. C'è chi lo nebulizza nell'aria e poi entra
“nella nuvola” e chi,o mette dove le vene sono in superficie (collo, polsi,
dietro le ginocchia) perché il calore lo diffonde meglio.
Negli
ultimi anni, molti creatori sono usciti allo scoperto. Da personaggi sconosciuti
nascosti nei laboratori sono diventati quasi delle star. Rilasciano interviste,
partecipano a conferenze, compaiono in shooting di moda e in televisione… una
volta non era così. Pensa che questa spettacolarizzazione creata dai media sia
utile al mercato oppure tolga fascino e mistero attorno alla figura del naso?
Io credo che sia un'ottima cosa. Almeno, la gente si
rende conto che gli stilisti e le celebrità, nella stragrande maggioranza dei
casi, non hanno nulla a che fare con il profumo che porta il loro nome. È bene
che il consumatore abbia più informazioni possibile sul prodotto che acquista.
Che
cosa pensa del marketing olfattivo?
La tendenza a diffondere profumi specifici nei negozi
dei brand (Abercrombie ad es.) negli hotel…. Onestamente, tutto il male
possibile. In particolare, Abercrombie, che invade con Fierce un intero
isolato, dovrebbe essere multato per occupazione abusiva di spazio pubblico. È
un peccato, perché ho amato Fierce, quando ancora non era arrivato in Italia e
lo indossava un mio collega, che ha la personalità perfetta per quel profumo,
una mascolinità cordiale e semplice, da boy scout. Il marketing olfattivo, nei
negozi, serve a convincere il consumatore che si sta comprando un'atmosofera e
non un oggetto che, una volta portato nella sua vita reale, probabilmente lo
deluderà. Lo tollero di più negli hotel e nei locali, dove l'atmosfera è parte
essenziale dell'esperienza che uno acquista.
Parlando
di profumi, qual è la sua madeleine
proustiana?
Ne ho tante, perché moltissimi odori mi fanno rivivere
esperienze importanti, per esempio l'incenso. Direi Amazone di Maurice Maurin
per Hermès, il primo profumo che ho amato. I miei genitori me ne diedero un
campionicino da annusare in automobile, perché la soffrivo moltissimo. È stato
così che ho scoperto il potere degli odori, quanto possono consolare e dare
felicità.
Un
profumo da regalare, secondo lei, che caratteristiche deve avere?
Dev'essere quello giusto per la persona. In pratica, o
lo usa e lo ama già, o è meglio lasciar perdere. Se proprio non si hanno altre
idee, è bene tenersi lo scontrino e regalare anche un campionicino, così il
destinatario può provare quello e cambiare la confenzione intatta con qualcosa
di più adatto.
Un
profumo senza il quale il mondo sarebbe meno bello?
Anche in questo caso ce ne sono molti, per esempio i
due che hanno dato origine a delle famiglie olfattive, cioé a dei generi di
profumo mai esistiti prima. Uno è Fougère Royale, creato da Francois Houbigant
nel 1882, cercando di immaginare il profumo della felce, che in realtà non ha
odore, e Chypre, di Francois Coty, 1917, ispirato alla macchia mediterranea.
Entrambi non sono più in commercio, almeno nella formulazione originaria, ma
hanno ispirato generazioni di fragranze successive. La figlia più famosa della
famiglia chypre, per esempio, è Mitsouko di Guerlain. E poi c'è Joy, di Jean
Patou. Il grande couturier l'ha creato e regalato alle clienti che, a causa della
crisi del 1929 non potevano più permettersi i suoi abiti. Credo che in questo
momento storico, sia bello ricordare quello scatto di creatività e generosità.
Forse è quello che ci serve per uscire dalla crisi.
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